
Storia del Dottor Rausei,
che cura persone e
non pazienti


Chi ha dubbi circa l’utilità del liceo classico, leggendo questa storia forse cambierà idea. Al Dottor Stefano Rausei, l’idea di dedicarsi alla medicina gli venne proprio sui banchi di scuola, mentre traduceva Ovidio, Virgilio, Aristofane.
Chi ha dubbi circa l’utilità del liceo classico, leggendo questa storia forse cambierà idea. Al Dottor Stefano Rausei, l’idea di dedicarsi alla medicina gli venne proprio sui banchi di scuola, mentre traduceva Ovidio, Virgilio, Aristofane. Un fatto non casuale. La cultura classica ha inventato la cura per il prossimo e ha celebrato la nobiltà della pratica medica. Nello stesso tempo, ha segnalato la necessità di andare oltre l’aspetto tecnico.
La persona non è mai solo il materiale organico di cui è fatta, è anche anima, spirito, cuore. Non le basta un corpo sano, vuole amicizia. Quel sentimento che i greci chiamavano “philia” e che consideravano la più alta forma d’amore. Negli anni del liceo, Rausei accoglieva questa ampiezza di pensiero, e l’intrecciava con la predisposizione alla concretezza che aveva ereditato dalla famiglia. La madre casalinga, il padre prima contadino e pescatore e poi tappezziere, da loro aveva assorbito – per osmosi affettiva, come avviene dove ci si vuole bene – il desiderio di integrare gli ideali più alti con un agire pratico, che sgombrasse il campo da qualsiasi astrattezza. Se medicina doveva essere, allora meglio quel tipo di medicina nella quale è il medico stesso la cura.
Ancora più della capacità di somministrare farmaci e di indovinare le diagnosi, per Rausei contava la possibilità di entrare nelle fibre malate dell’essere umano e sradicare il male. E così, aveva deciso. Qualche delusione d’amore com’è tipica di quell’età, una grande passione per il pallone, l’affetto dei suoi e l’amore per una letteratura antica sì, ma non remota, erano tutto il suo bagaglio. Dalle Marche partiva per Roma, dove avrebbe studiato medicina e si sarebbe specializzato in chirurgia. Era quella la strada migliore per rendere vivi e attuali gli ideali che lo avevano conquistato al liceo.
Oggi il Dottor Rausei
è direttore di una chirurgia con due presidi territoriali ed è considerato uno dei massimi esperti di cancro allo stomaco a livello europeo. Il suo primo amore però non fu lo stomaco. Fu il cuore. All’inizio sognava di diventare cardiochirurgo. Forse perché ricordava che per i greci l’anima risiedeva proprio lì, nel muscolo che ci tiene in vita. O forse perché qualcosa era comunque iscritto nel suo destino, visto che dopo gli studi sposerà proprio una cardiologa, oggi madre dei suoi due figli e prima confidente di tutte le storie, a volte belle a volte drammatiche, che incontra nel suo esercizio quotidiano di chirurgo dello stomaco. Sta di fatto che la vita, alla fine, è fatta di quei momenti che gli inglesi chiamano, con una metafora ricavata dal titolo di un film, sliding doors, porte scorrevoli: sono i punti di svolta, quei piccoli eventi che imprimono una nuova direzione all’esistenza. Cruciale fu un’operazione d’urgenza. Stefano, ancora studente al quarto anno, preparava l’esame di gastroenterologia e faceva pratica al Policlinico Gemelli. Mancava un assistente e il chirurgo che doveva effettuare l’intervento, che era anche uno dei professori con cui avrebbe sostenuto l’esame, gli chiese se per caso voleva “lavarsi”. In gergo chirurgico “lavarsi” significa rendersi “sterili” per entrare in sala operatoria. Stefano rispose di sì, e quel sì cambiò tutto. La lampada scialitica sul malato, le apparecchiature in funzione, il lavoro di squadra che procedeva scandito da gesti precisi e affiatati, il professore che apriva l’addome, asportava il male, e poi richiudeva… tutto gli fece una grande impressione. C’era, oltre alla meccanica dell’operazione allo stomaco che lo affascinava, anche l’aspetto oncologico, che implicava un campo di studi enorme e per lui, fino ad allora, esplorato solo in parte e solo teoricamente. Stefano decise che il suo futuro sarebbe passato da lì. La sera stessa, entusiasta, al papà che, al telefono, gli chiedeva di spiegargli com’era andata e come si sentiva, rispose: “papà, è come quando tu apri i divani per riempirli di gommapiuma. Aprire, mettere a posto, chiudere. È una cosa simile, anche un po’ grossolana se vuoi, però salvi delle vite”. Il padre capì al volo. Lui che avrebbe voluto studiare, ma non aveva potuto. Ora sentiva, con grande soddisfazione, che i sacrifici per fare studiare i figli venivano ripagati abbondantemente.
La lampada scialitica
è la lampada speciale che illumina il tavolo operatorio. Genera una luce senza ombre che rende la superficie sulla quale si posa, chiara, netta e omogenea. Dal giorno della laurea nei primi anni duemila, di lampade scialitiche il Dottor Rausei ne ha fatte ha accendere tante. Eppure, ogni volta è come se fosse per la prima volta. Non nel senso che gli manchi dell’esperienza. Anche se non si finisce mai di imparare, di esperienza il Dottor Rausei ne ha accumulata tanta, così tanta che nel 2017 entrò nel comitato internazionale degli esperti per il congresso mondiale sul cancro allo stomaco di Pechino. Un risultato acquisito sia per la qualità della letteratura scientifica che ha prodotto sull’argomento, sia per la rinomata capacità di effettuare interventi chirurgici eccellenti. Ma questo non esaurisce la quantità di impegno e di coinvolgimento che ogni caso richiede. “Ogni malato è una storia a sé, un mondo a sé, un universo a sé”. Sono parole sue, è così che il Dottor Rausei parla dei suoi casi. Per lui, ogni paziente è portatore di particolarità proprie e irripetibili. Dal punto di vista esistenziale, naturalmente, ma anche dal punto di vista puramente clinico. Ognuno ha una storia che è irriducibile alle categorie entro le quali viene incasellata per esigenze statistiche. Per questo ogni volta è come se fosse la prima volta. Sotto anestesia non c’è un corpo, c’è una persona. Con la sua cultura, il suo carattere, i suoi affetti, le sue idiosincrasie, le sue paure, la sua voglia o non voglia di vivere e il suo modo sempre singolare di rispondere al tumore che l’ha attaccato. L’intervento, poi, non è che un momento tra i tanti di un continuum.
Quando il malato giunge sul tavolo operatorio, ha già fatto un percorso in compagnia del chirurgo che l’ha preso in cura. Quando ne esce, ne inizia un altro che andrà avanti nei mesi successivi e nel quale, pur incontrando anche altri specialisti, la figura del chirurgo rimane centrale. Il paziente ha bisogno di affidarsi a una figura di riferimento che faccia da collettore per tutte le altre, e nel suo immaginario questa figura non può che essere il chirurgo, perché il chirurgo è quella specie di supereroe buono che sradica, letteralmente, il male. In tutto questo tempo, naturalmente contano i risvolti diagnostici, l’intervento, le terapie, ma è importante anche la relazione che si crea. La relazione è indispensabile ed è parte della cura. Ma una relazione positiva può nascere solo all’interno di una comunicazione attenta, personale ed empatica. In questo, il Dottor Rausei è un maestro. Lui dice che una certa capacità comunicativa l’ha imparata non solo dagli studi classici, ma anche dall’ottimo orecchio musicale che si è trovato in dote per natura e che gli ha concesso, quand’era ragazzo, di esprimere i suoi sentimenti scrivendo canzoni. Noi gli crediamo, perché gli effetti si vedono. Il Dottor Rausei esprime i suoi sentimenti in modo aperto e coinvolto. Spesso, per fissare cosa ha provato lui davanti a un paziente, ne scrive la storia, mantenendo la privacy, e poi la pubblica sui suoi social network. All’inizio, è sempre tutto un po’ difficile. Anche a uno stadio iniziale, un tumore gastrico è difficile da accettare. Ma se chi comunica la notizia non lo fa in modo freddo e distaccato, e in più si mette a completa disposizione del malato, dandogli addirittura il suo numero di telefono privato, come fa non di rado il dottor Rausei con i pazienti oncologici che segue, le cose assumono immediatamente un aspetto migliore.
Dopo la laurea,
e il dottorato al Gemelli di Roma, il Dottor Rausei si è trasferito a Varese, ad assistere il professor Dionigi, un luminare che ha scritto il trattato di chirurgia più studiato nelle facoltà di medicina italiane, di cui peraltro pochi anni dopo il Dottor Rausei avrebbe curato proprio il capitolo sullo stomaco. Il talento non basta, ci vogliono anche le opportunità, scriveva un grande nome della cultura classica, Seneca. E a Varese l’opportunità c’era, perché il professor Dionigi non aveva nessuno che curasse specificatamente l’aspetto scientifico il cancro allo stomaco. Per due anni Rausei ha fatto l’assistente in sala operatoria, imparando tutto quello che c’era da imparare. Parallelamente portava avanti le attività di ricerca e raccolta dati di cui si occupava già durante gli anni di Roma.
Oggi è prassi abbastanza comune eseguire un ciclo di terapia sistemica prima dell’intervento chirurgico. Questa strategia, che mira alla riduzione del volume del carcinoma e alla maggiore radicalità del successivo intervento chirurgico, era stata sperimentata, tra i primi centri in Italia, provata per la prima volta al Gemelli, dal tutor e professore che avrebbe curato la tesi di Rausei, sempre per un casi molto complessi. Dopo gli anni a Varese, ormai chirurgo pienamente formato, Rausei è stato chiamato a dirigere la il presidio chirurgia dei presidi di Angera e Cittiglio. Ha conosciuto l’associazione “Vivere senza stomaco si può” attraverso i social e ne è rimasto entusiasta. Si è offerto come consulente per dirimere le questioni più spinose. A volte qualcuno si lascia trasportare dall’emotività e il dibattito che si accende ha bisogno del parere risolutivo di un esperto. Rausei conosce bene questi meccanismi, anche perché, negli anni, è diventato una specie di creator di contenuti social. Il suo bisogno di mettere nero su bianco le storie di relazione umana che il suo mestiere gli porta a vivere ha fatto di lui un grande comunicatore. Attraverso la sua pagina Facebook, il Dottor Rausei ha aperto un dialogo ininterrotto con i suoi pazienti, vecchi e nuovi. Tra questi, ce ne sono tanti convinti che non è vero che il Dottor Rausei, negli anni della formazione universitaria, abbia scelto lo stomaco a discapito del cuore. Anche se non è diventato cardiologo, le sue parole di cuore ne hanno tanto.
A titolo di esempio,
riportiamo una storia scritta dal Dottor Rausei. Da un post pubblicato sulla sua pagina Facebook il 15 marzo 2024:
“Ci sono dei pazienti che hanno una luce particolare nel sorriso, che non cedono lo sguardo allo sconforto, che semplicemente non si arrendono. Eppure, ne avrebbero motivo. Mi chiedo sempre come reagirei io nelle loro condizioni. Me lo chiedo spesso. Esco stupito, ogni volta di più, da quella luce.
Ho davanti un grande anziano, lucidissimo, che non riesce più a godere del cibo per una neoplasia avanzata. Pure condannato dalla stessa a continue terapie trasfusionali per sostenersi. A me medico, prima ancora che chirurgo, quell’anziano pone davanti un complesso problema clinico. Innanzitutto, un problema di scelte sulla cosa più corretta da fare: benché si creda il contrario, la medicina non conosce certezze. Men che meno in casi così, che negli studi che fanno evidenza costituiscono una popolazione mal rappresentata e, quindi, mal studiata.
Pertanto, non vi è nessuna linea guida a confortare la correttezza della mia scelta.
Quando poi proprio quel grande anziano ha quella luce e quella forza e quel coraggio, il problema clinico si fa inevitabilmente più profondo. Quale il suo bene? Vivere un giorno in più o vivere degnamente fino in fondo, a quel punto anche al prezzo di contare addirittura qualche giorno in meno?
Stavolta trovo semplice la risposta nella seconda opzione. Non quantità, ma qualità. Il conforto me lo dà il buon senso, ma soprattutto la scelta inequivocabile dell’anziano signore. Semplice, dicevo. Apparentemente.
Quando
lo trovo sul tavolo operatorio e lo sostengo poco prima che venga addormentato, dopo che avvicino il mio volto al suo per far si che mi riconosca pur senza gli occhiali e incrocio ancora quello sguardo e incontro quel sorriso, entro in sala consapevole di essere nel giusto.
Poi lego la maschera, mi lavo le mani, indosso gli indumenti e i guanti sterili. Anche se solo per poco svesto il camice bianco. Come se per quella
finestra temporale dimenticassi che quell’addome appartenga a quello stesso anziano signore. Come quel sorriso e quello sguardo peraltro. Divento semplicemente il tecnico che per anni ho desiderato di essere, ho studiato per essere e che oggi sono orgoglioso di essere.
L’intervento è molto più difficile di quanto qualunque esame mi avesse potuto far immaginare. Sono sul punto di desistere. Tecnicamente non resecabile. Me la caverei così. Semplicemente. D’altra parte, è ben codificata questa possibilità.
È a quel punto che, anche solo per un attimo, idealmente rimetto il camice e mi metto di fronte a quell’uomo, che ha legato a me la sua speranza. Come fossi già al giro visita del giorno dopo, quando quello sguardo pretenderà sincerità, consentendomi pochi, pochissimi giri di parole.
E come tecnico, con il camice bianco addosso, riesco a portare a termine l’intervento, coerente con il mandato affidatomi. Qualità. Non quantità.
Aspetto di rivederlo l’indomani. Non sono sicuro di riuscire a mettere nel mio sorriso la luce che mette lui, ma senza dubbio andrò al suo letto consapevole di non aver ceduto lo sguardo allo sconforto, di non essermi arreso. La strada me l’ha indicata. Fin da principio. Fino in fondo. Semplicemente”.