Storia di Adriano,
l’educatore che ha ritrovato
sé stesso
I bambini più felici? Adriano li ha incontrati in Africa. Erano bambini poveri, ma così poveri che non avevano nulla. Telefonini, computer, vestiti di marca, playstation… niente di niente. Neanche una bicicletta.
I bambini più felici? Adriano li ha incontrati in Africa. Erano bambini poveri, ma così poveri che non avevano nulla. Telefonini, computer, vestiti di marca, playstation… niente di niente. Neanche una bicicletta. Solo l’amore dei genitori, l’allegria dell’infanzia, un cielo infinito sopra la testa e la natura a far da corona. Magari una palla di stracci. Non servono troppe cose, per essere felici. Adriano ha imparato questa lezione in Etiopia. Ci era andato da ragazzo, dopo aver preso il diploma di perito elettrotecnico. Aveva seguito una associazione cattolica che si occupa di intrattenere relazioni di tipo caritativo e culturale con il mondo africano. Molti anni dopo, a 59 anni per l’esattezza, reduce dall’operazione che gli ha asportato lo stomaco per intero, Adriano sa che quella lezione è ancora valida. Non servono troppe cose, per essere felici. E l’amore è l’unica cosa che conta.
Adriano non stava bene.
Nausee, reflussi gastrici piuttosto forti, a volte non riusciva quasi a mangiare. Tempo addietro, verso la fine del 2020, qualche problema gliel’aveva causato il vaccino per il Covid. Per un po’, dopo l’inoculazione, aveva sofferto di sbalzi alla pressione arteriosa.
La cosa però si era risolta nel giro di qualche mese. Chissà che quei nuovi sintomi, che lasciavano immaginare una gastrite violenta, non fossero anche loro legati al vaccino che ha diviso il mondo in pro e no-vax. Si trattava, purtroppo, di una supposizione sbagliata. Il dottore aveva prescritto una gastroscopia. Ma Adriano, molto impegnato con il suo lavoro, la rimandava.
Si sa che lo stress è la causa di tanti mali. Nella nostra vita di occidentali sempre alla rincorsa di qualcosa, nella nostra vita così lontana da quella felicità che Adriano, da giovane, aveva letto negli occhi dei bambini africani, lo stress è un compagno fedele, a cui imputiamo la maggior parte dei nostri guai.
Non è un ragionamento poi così sbagliato. Spesso basta allentare lo stress, e stiamo meglio. Le cose, però, stavano diversamente. A sei, sette mesi dalla prescrizione, con i sintomi che non accennavano a diminuire, Adriano si decide a fare la gastroscopia. E il risultato è, a dir poco, devastante. C’è un tumore allo stomaco. Lo stadio è avanzato, è un T4. Ci sono anche delle metastasi al fegato. E non basta. Ormai è inoperabile. Aprire non servirebbe a nulla.
Per quanto le parole siano scelte con cura e dimostrino, da parte del medico che le pronuncia, una partecipazione non formale, una empatia non di facciata, sentirsi dire di avere un tumore in stato avanzato, inoperabile, ti fa mancare la terra sotto i piedi. Il medico cerca di descrivere la situazione clinica utilizzando tutta la delicatezza possibile, ma non c’è modo di attenuare quella che sembra essere già una sentenza. E tu, che ascolti con il cuore che batte forte, entri in un vortice senza uscita. Un vortice di angosce e di pensieri. Pensieri come: che sarà della mia famiglia, adesso? Adriano, con sua moglie Anna, ha costruito una famiglia splendida. Tre figli. La prima, nel momento in cui stiamo scrivendo questa storia, ha 33 anni e lavora con lui. Il secondo, 29, si è sposato da poco. L’ultima ha appena 15 anni e fa il liceo.
Che sarà di loro? D’accordo, i primi due sono grandi, ma la piccola? Adriano è sconvolto dall’idea di lasciarla sola. Per fortuna la scienza medica, come ogni scienza, è una disciplina perfettibile, che procede per correzioni continue. Ciò che è dato come incontrovertibile un giorno, può non esserlo più qualche tempo dopo. E così, dopo un po’ di rimbalzi tra un ospedale e l’altro, e diversi cicli di chemioterapie attraversati con tanta sofferenza, ma che riescono a fermare l’avanzata del tumore e a cicatrizzare le metastasi, una brava oncologa dice che si può provare, che vale la pena tentare l’operazione, anche se si tratterà di un intervento difficile.
Il periodo che precede l’intervento è molto complicato.
Ai figli, per un mese, non viene detto nulla. Adriano e sua moglie sono sotto shock. Intanto rimbalzano da un ospedale all’altro. Adriano spera di entrare in un gruppo di pazienti che verrà destinato a cure sperimentali, innovative. Non ci riesce. Non solo, il lumicino di speranza che questa prospettiva aveva acceso, viene spento senza garbo, in modo superficiale, da una infermiera che si lascia sfuggire gli esiti del sorteggio: «No, guardi, lei è stato assegnato al gruppo di pazienti che verrà sottoposto a cure tradizionali. Ah, non lo sapeva?».
Intanto, un amico chirurgo che aveva avuto in cura il papà di Adriano – morto in breve tempo, all’età di 79 anni, per un tumore al pancreas – senza andare troppo per il sottile gli dice che la sua situazione non è tanto diversa, e che il fattore ereditario ha il suo peso. L’angoscia aumenta. Come i rimorsi. Adriano ha ritardato la gastroscopia di sei, sette mesi. Ma questo, secondo molti esperti, ha influito poco. Il tumore è troppo avanti, sono anni che lavora. Finalmente, Adriano trova un ospedale dove c’è una oncologa che gli fa un’ottima impressione, e a cui sente di potersi affidare totalmente.
La chemioterapia, intanto, è molto dura. Gli si blocca la mandibola. Gli viene una trombosi a una vena. Perde sensibilità alle mani e ai piedi e per lui, che fin da ragazzo ha amato suonare la batteria e la chitarra, è un dramma, perché la musica – chiunque strimpelli uno strumento lo sa – è una compagna di vita che non ti abbandona mai e a cui non vorresti rinunciare mai, indipendentemente dal fatto che tu sia un dilettante o un professionista.
Poi, c’è la stanchezza. Una stanchezza invincibile, indotta dalla chemioterapia, ma anche dalla difficoltà a nutrirsi adeguatamente e dalla conseguente perdita di peso. È chiaro che non si può più fingere.
Così, con sua moglie, Adriano decide che è il momento di parlare, di raccontare ai figli come stanno le cose. Ne discutono con dolcezza, ma senza nascondere la verità: ragazzi, è meglio prepararsi al peggio. Il figlio maschio, si ribella: «perché ce l’hai tenuto nascosto?».
Ora però, rispetto al giorno della diagnosi, al primo esito della gastroscopia, si è aperto uno spiraglio. C’è un’operazione che si può fare. E allora Adriano viene operato. Asportazione totale dello stomaco. Intervento complicato, e demolitivo. Ma che riaccende la speranza. Le prime settimane dopo l’operazione sono terribili. Adriano non si è mai sentito così male in vita sua.
Appena mette in bocca qualcosa va in apnea. Reflussi devastanti. La sensazione di soffocare. Lo stato di prostrazione lo porta vicino alla disperazione assoluta. Una disperazione fisica e psicologica. Eppure, in tutto questo, lui dice di non essersi mai sentito così vicino agli altri, di non aver mai provato una empatia così forte per le altre persone. Nel momento peggiore, nel momento di sofferenza più acuta, Adriano dice di avere sviluppato una sensibilità che prima non gli sembrava di avere. Paradossalmente, è quando è stato peggio che si è sentito più vicino agli altri, e che ha avuto tanti pensieri di gratitudine per ogni istante di vita che gli è concesso vivere. Nel dolore Adriano non ha ritrovato solo gli altri, ha ritrovato anche sé stesso.
Da dove nasce questo sguardo così positivo,
che trova modo di ricavare, dalla sofferenza, un sé migliore, più buono, più solidale con tutti? Da dove nasce la capacità di non lasciarsi abbattere da una situazione che, anche se l’operazione è stata un successo e adesso Adriano ha ripreso a stare relativamente bene, a lavorare e a condurre una vita normale, rimane comunque oggettivamente difficile? A questo riguardo, dobbiamo dire qualcosa del rapporto speciale che Adriano ha con Anna, sua moglie. Senza di lei, senza la sua compagnia costante, accorata, silenziosa in certi momenti, ma comunque forte e piena di speranza, Adriano non sarebbe mai riuscito ad attraversare i momenti più terribili del suo calvario.
Anna non ha smesso di stare al fianco di suo marito nemmeno per un istante, e anche quando aveva il cuore a pezzi, ha fatto in modo di non farlo pesare su nessuno della famiglia. In una situazione che oggettivamente toglie – perché la malattia toglie, non lo si può negare – Adriano ha, paradossalmente, ricevuto tanto: «Non è trascorso un solo giorno senza sentire la forza dirompente del suo amore», dice a chi glielo chiede. «Se siamo riusciti ad aprirci alla speranza è perché grazie a Anna abbiamo ripreso il nostro cammino di fede che ci ha consentito di affidaci totalmente».
Già, la fede.
Questo è un aspetto non banale e per nulla periferico di questa storia. Ma per capirlo dobbiamo tornare al punto da cui siamo partiti: a quei bambini africani che, col loro sorriso, hanno insegnato ad Adriano che basta poco per essere felici, e che l’amore è l’unica cosa che conta. Quel viaggio, compiuto quand’era poco più di un ragazzo, gli ha cambiato la vita. Lui lo chiama: “la mia folgorazione sulla via di Damasco”.
L’esperienza di fede iniziata allora, quando frequentava l’oratorio dei salesiani e con loro decideva di andare in Africa, si è tradotta in un percorso spirituale che non solo lo ha accompagnato lungo tutta l’esistenza, ma che ha anche deciso delle sue scelte affettive e professionali. È un percorso, quello spirituale, che Adriano condivide con Anna. Oggi, a 59 anni, provato da una malattia durissima, l’esigenza di comunicare con una dimensione superiore a quella materiale si è risvegliata in lui con ancora più forza.
Qui, naturalmente, nessuno vuole fare proseliti, tantomeno Adriano, che ha talmente rispetto della sensibilità altrui da non dire mai a nessuno nemmeno “pregherò per te”. Ma faremmo un torto alla sua testimonianza se omettessimo di raccontare il posto che ha Dio nella sua vita e nella vita della sua famiglia. Sarebbe come omettere qualcosa che fa parte di lui in modo radicato e intimo, che è parte di lui proprio come è parte di lui il suo carattere, o il colore dei suoi occhi.
Tornato dall’Africa,
Adriano aveva capito che gli sarebbe piaciuto fare l’educatore. Cosa c’è di più bello che stare con i bambini? In più lui suonava, cantava, e in oratorio era sempre stato un bravo animatore. C’era uno psichiatra, un amico, che si occupava di casi difficili, soprattutto di ragazzi autistici. Aveva bisogno di un aiuto per preparare delle iniziative speciali dedicate a loro, come spettacoli teatrali e altre occasioni di coinvolgimento.
Adriano capì che era l’occasione per mettersi alla prova. Lasciò il lavoro di elettricista che aveva iniziato dopo il diploma, e iniziò a collaborare con lo psichiatra. Fu un’esperienza travolgente. Aveva trovato la sua strada. Adriano si era sposato a 25 anni, con una ragazza che aveva conosciuto all’oratorio. Alla festa di nozze avevano partecipato seicento persone. Il menu non era certo da ristorante stellato, e il luogo della festa era il cortile dell’oratorio, non un castello rinascimentale. Ma così erano riusciti a invitare tutti gli amici, a non lasciare fuori nessuno. Tanti amici, tante famiglie, tanti figli. Adriano pensò che avrebbe potuto aprire un asilo nido. Sì, va bene, gli disse lo psichiatra. Ce la puoi fare, si vede che quello dell’educatore è il tuo mestiere. Però devi studiare.
Così Adriano, a 28 anni, si iscrisse a Scienze dell’Educazione. Prendeva un trenta dietro l’altro, perché per lui, studente tardivo ma appassionato, ogni materia era una scoperta infinita. Oggi, l’asilo che ha costruito tanti anni fa ospita dai 30 ai 50 bambini da zero a tre anni.
Anche nelle fasi più dure della malattia, ogni volta che ce l’ha fatta è andato al lavoro, insieme alla figlia più grande che ha voluto seguire le orme professionali del padre. La fede, in tutte le scelte di vita di Adriano e sua moglie, ha sempre avuto un ruolo importante. Durante la malattia, è anche servita a riavvicinarli.
Lo shock li aveva così disorientati che a un certo punto hanno capito che si stavano perdendo, e che quella dimensione spirituale che li aveva avvicinati tanti anni prima, andava ritrovata e rinvigorita. Oggi Adriano e sua moglie hanno chi sta loro vicino e li aiuta. C’è Padre Francesco, per esempio. Lui dice sempre che la sofferenza è qualcosa che chiede di essere attraversato fino in fondo. Non è a uscire dalla sofferenza che serve la fede, ma a ritrovare sé stessi. E Adriano cosa dice? Adriano dice che non sa, perché oggettivamente non può saperlo, che cosa lo aspetta.
Potrebbero essere ancora tanti anni di vita, o pochi. Con una malattia trovata in fase così avanzata è impossibile fare previsioni. Sa anche che questo non gli impedisce di offrire una parola di speranza a tutti gli amici dell’associazione “Vivere senza stomaco si può”. Senza mettere in mezzo questioni religiose, perché ognuno deve seguire la propria strada. Una cosa però la può dire, senza paura di sbagliare. Anche nel momento più buio, c’è sempre la possibilità di una luce interiore. Un po’ come dice quella famosa canzone di Leonard Cohen: “C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce”.