
Storia di Claudia
cofondatrice e
anima dell’Associazione


Cofondatrice dell’Associazione
C’è una parola che racconta bene la storia di Claudia. È la parola “confine”. Di questa parola è impregnata tutta la sua vicenda umana, che è allo stesso tempo dolorosa e piena di luce.
Prima di quel brutto giorno a Ischia, quando, appena arrivata per le vacanze, le colsero dei fortissimi dolori alla pancia, Claudia, come tanti, viveva la sua vita. Una vita appagante, conquistata con qualche difficoltà. All’età di 22 anni era stata vittima di un incidente automobilistico (frattura di numerose vertebre), con conseguenti lunghi e dolorosi ricoveri ospedalieri. Un evento che la spinse a riflettere sul suo futuro.
Fu proprio in quei mesi, infatti, che decise di dare un nuovo orientamento alla sua formazione. All’università seguiva i corsi di lingue e letterature straniere. Decise di cambiare e diventare “insegnante a studenti con disabilità”. Voleva dedicarsi agli ultimi, agli esclusi, ai disabili. Era questa la sua vera “mission”, che realizzò subito, appena finiti gli studi, dedicandosi all’insegnamento nella scuola elementare (all’epoca si chiamava così). Per qualche anno, ogni giorno si confrontò con quello che veniva definito il “Pianeta Handicap”. Poi, quando il Provveditorato agli Studi di Ferrara lanciò un bando per il posto di responsabile dell’ufficio integrazione, partecipò e lo vinse. A quel punto, lo spazio educativo di cui doveva occuparsi si allargò notevolmente. Claudia capì subito che il nuovo lavoro le dava l’opportunità di intervenire su larga scala, e che l’integrazione non poteva limitarsi al curriculum scholae, ma doveva essere a tutto campo; bisognava guardare all’intero ciclo esistenziale del disabile, secondo una prospettiva che oggi viene definita “Progetto di vita”.
Per sedici lunghi anni
Claudia si è occupata dell’inserimento dei disabili e delle persone di lingua straniera nella scuola pubblica. Il mondo della disabilità è quanto di più complesso si possa immaginare: diverse le disabilità e diversi i contesti scolastici, lavorativi, familiari nei quali potere e dovere intervenire. Ricordiamo che gli studenti con disabilità vennero tolti dal ghetto delle scuole speciali solo nel 1977. È da allora che possono frequentare le “scuole comuni”, e che il Ministero dell’Istruzione ha iniziato quei processi di integrazione che necessitano di personale formato ad hoc. L’Ufficio di Claudia si muoveva proprio in questa direzione. L’intento era quello di cercare di migliorare, con tutti gli strumenti possibili, il percorso scolastico di questi studenti, per dare loro la possibilità di frequentare anche le scuole superiori. Era una sfida piena di incognite e speranze.
Una sfida da affrontare con senso di responsabilità e con sensibilità umana, perché mai come in questo caso i soli tecnicismi potevano essere sufficienti. Si parlava, finalmente, di progetto vita della persona con disabilità! Claudia ricorda che furono anni densi di fervore, di impegno, di frustrazioni ma anche di tante soddisfazioni. Sentiva particolarmente vicino l’insegnamento di Don Milani: «Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali».
Proprio come lui, era guidata dalla consapevolezza che la scuola non può essere un ospedale che cura i sani ed esclude i malati. Gli altri suoi punti di riferimento erano i grandi della pedagogia: Itard, Piaget, Montessori, Canevaro. Negli anni, Claudia costituì gruppi di lavoro specifici, curò pubblicazioni, costruì una rete di accoglienza.
Le piaceva intervenire in quelle situazioni che chiamava di “confine”. Insegnare a chi non ha problemi particolari, diceva, è un’attività che può svolgere chiunque. Il bambino “ginevrino” di Rousseau le interessava poco, lei voleva di più. Voleva andare là dove la vita ci mette davanti a quei limiti che solo noi possiamo trasformare in soglie da attraversare.
Dopo sedici anni a capo dell’Ufficio Integrazione del Provveditorato, Claudia decise di tornare sul campo, cioè di ricominciare a insegnare.
Lo fece per una scuola speciale: il Centro Territoriale Permanente educazione per gli adulti. Anche questa era una esperienza… di confine. Il CTP, infatti, si occupa di insegnare la lingua italiana ai cittadini stranieri, di recuperare gli studenti che non sono riusciti a ottenere il diploma di scuola media, e dell’insegnamento nel biennio delle superiori. Ma soprattutto si occupa dell’insegnamento della lingua italiana in carcere. Di quegli anni, l’esperienza che racconta con maggiore coinvolgimento emotivo è proprio quella dell’insegnamento in carcere. Claudia dice sempre di esserne uscita arricchita.
Poi arrivò il 2008.
E quel brutto giorno a Ischia. Era agosto. Accusare forti dolori allo stomaco, il primo giorno di vacanza, non è la cosa più bella del mondo. Ancora peggio è andare dalla guardia medica locale e sentirsi dire: «Quella pancia non mi piace, sarebbe opportuno un ricovero». Claudia non ci pensava proprio a entrare in ospedale lontano da casa. Prese il traghetto, e da Ischia tornò a Ferrara. Una volta arrivata, i dolori scomparvero quasi del tutto. Tuttavia, anche se meno dolorante, non stava affatto bene. Ripreso il lavoro dopo le ferie, andava a scuola già stanca. Non riusciva a digerire. Se è solo una gastrite, pensava, deve essere bella grossa. Il medico le prescrisse una gastroscopia con controllo istologico. Poi, una volta arrivati i risultati, la convocò nel suo studio. Le chiese di farsi accompagnare dal marito, che ai tempi, per il suo impegno politico, in città era una persona piuttosto in vista e quindi molto impegnata. Questo fatto la mise in allarme. Che motivo c’era di convocare anche Giorgio? Perché loro due, insieme? Dovevano avere trovato qualcosa di serio. Non c’era altra spiegazione. Mentre saliva le scale che portavano allo studio medico, Claudia aveva la mente lucida e concentrata. Si reggeva al braccio del marito, o forse era lui che si reggeva a lei. Erano entrambi preoccupati, ed entrambi consapevoli di doversi sostenere reciprocamente. Il viaggio in auto era stato silenzioso, interrotto solo da qualche commento estemporaneo sul tempo e sul traffico, proferito con lo scopo di allentare la tensione, senza peraltro riuscirci.
Una volta entrati, si sedettero sulle sedie davanti alla scrivania. Erano un paio di sedie spartane, di plastica dura, di quelle che appena ti accomodi vuoi già andare via.
Forse negli studi medici le usano così apposta. Non dissero nemmeno buongiorno. Aspettarono che il medico parlasse per primo. Carcinoma allo stomaco di tipo T1. No, non è una sciocchezza. È grave.
Va asportato tutto.
Sì, ma quando? Prima possibile, Claudia. Mi spiace davvero. Non c’è tempo da perdere.
Claudia si è sempre occupata degli ultimi. Prima e dopo il tumore. Anche dopo l’operazione, debilitata nel fisico e provata psicologicamente, continuerà a insegnare italiano agli stranieri. Perché le situazioni di confine sono quelle per le quali Claudia ha speso tutta la sua vita. Non per una vocazione. A Claudia non piace questa parola. Piuttosto per una predilezione. Una predilezione per chi si trova in situazioni di difficoltà, e a cui si può dare un aiuto.
Ora, di fronte alla verità brutale della sua malattia, era lei stessa a sprofondare in una situazione di confine. La più aspra di tutte. Perché la linea tracciata era quella che separa la vita dalla morte. Quando uscì dallo studio medico, insieme a Giorgio, aveva la testa piena di nebbia. Tanto era lucida prima di entrare, tanto era, subito dopo, disorientata, sotto shock, annichilita. In mezzo a quella nebbia, un solo pensiero: io non mi opero, perché tanto muoio.
Oggi, nel momento in cui scriviamo questa storia, sono già passati sedici anni da quella esperienza e Claudia sa che la mancanza di speranza non è mai giustificata! Si è sottoposta ad un intervento estremamente demolitivo (asportazione totale dello stomaco), poi a cicli molto duri di chemioterapia, ma pian piano ha ripreso in mano le redini della sua vita. E dopo aver alzato lo sguardo verso un orizzonte più lungo di una giornata – così racconta – insieme ad altre tre persone ha fondato l’Associazione “Vivere senza stomaco si può” e dal 2015 ne è la presidente. “Vivere senza stomaco si può” è l’unica associazione in Italia che si occupa di persone colpite da carcinoma gastrico. Dopo tanti anni accanto agli ultimi, e dopo l’esperienza così dura del tumore, Claudia capì che la vita le aveva dato una seconda possibilità e che la sua “mission” rimaneva sempre la stessa: aiutare chi aveva bisogno. Al posto di disabili, carcerati o stranieri, adesso si trattava di aiutare chi si ammalava del suo stesso male e anche delle persone vicina, perché una diagnosi di cancro non colpisce solo l’ammalato ma tutto il cotesto familiare, che va sostenuto.
L’Associazione oggi assorbe tutte le sue giornate. Per essa Claudia si spende senza sosta nella organizzazione di convegni e iniziative di sensibilizzazione, viaggiando su e giù per l’Italia e coinvolgendo ricercatori, medici, oncologi, nutrizionisti, chirurghi e psicologi che prestano la loro consulenza gratuitamente. Claudia, insieme ad altri volontari, ha trovato una nuova terra di confine. Ha visto un limite, e l’ha trasformato in una soglia da oltrepassare. Forse perché nel suo cuore di confini non ce ne sono.
A volte
attraverso l’associazione “Vivere senza stomaco si può”, Claudia incontra persone che hanno il tumore in fase avanzata e che si sentono spacciate. Forse vale la pena ricordare una storia recente. La figlia di una signora giudicata inoperabile, ormai quasi in fase terminale, si era messa in contatto con l’associazione. L’associazione, che monitora costantemente i progressi della scienza medica, ha indicato a questa ragazza una serie di presidi specializzati ai quali poteva rivolgersi per un altro parere. Risultato: la signora giudicata inoperabile è stata operata. Le sue condizioni rimangono serie, com’è ovvio vista la situazione di partenza, però è stato guadagnato qualche anno di vita, e di vita dignitosa. Questo non può essere considerato un dettaglio.
Alle persone che non vedono via d’uscita, Claudia racconta sempre un episodio della sua vita che è di poco successivo all’operazione. Era una domenica. Era andata a cercare su Internet quali fossero le percentuali di sopravvivenza tra gli operati di tumore allo stomaco. Aveva trovato un numero molto basso, e la cosa l’aveva gettata in una cupa disperazione. Non restava che piangere. Pianse tutto il giorno. Il marito Giorgio, uomo tutto d’un pezzo, poco incline agli sbandamenti emotivi, ne era rimasto particolarmente scosso. Chiamò un suo caro amico, il professor Italo Nenci – un anatomo patologo, luminare di livello internazionale – e gli chiese se non c’era qualcosa che potesse fare. Il professore, molto attento ai risvolti psicologici di quell’incontro, convocò Claudia nel suo dipartimento, in ospedale. Era la cosa migliore da fare. Se fosse passato lui da lei, la componente amicale avrebbe prevalso sull’autorevolezza scientifica.
Ricevuta Claudia ed esaminata la sua cartella clinica, per prima cosa le disse: «Io non so fare il tuo mestiere, l’insegnante. Non sono proprio capace». La cosa fa sorridere perché il professor Nenci, che oggi purtroppo non c’è più, allora era titolare di una cattedra universitaria. Poi proseguì: «Però di medicina fai occupare me. Le percentuali che hai visto tu riguardano i tumori allo stomaco di tutte le classificazioni, dai T0 ai T4. A te è stata riconosciuta una stadiazione pari a un T1, e con la tua stadiazione la percentuale di sopravvivenza è del 75%, contenta?». Claudia era sollevata, ma la vera lezione doveva ancora arrivare.
«Ascoltami bene Claudia, ascolta bene cosa sto per dirti. Io non so, perché non mi è possibile saperlo, se tu sei nel 75% delle persone che sopravvivono o se sei nel 25% di quelle che non ce la fanno. Ma proprio perché non lo so io, e non lo sai tu, proprio per questo ci devi credere, ci devi credere sempre».
In tanti anni di associazione, Claudia ha visto dei T1 non farcela e dei T4 sopravvivere per decenni (il numero dopo la T determina la grandezza del tumore secondo un ordine crescente). Bisogna crederci. Sempre. Perché non puoi sapere in quale percentuale sei.
Claudia subì un intervento di gastrectomia totale particolarmente demolitivo, seguito da un ciclo di chemioterapie pesantissimo. A causa della radicalità dell’intervento, oggi Claudia è in una condizione molto faticosa per quel che riguarda l’alimentazione. Peggiorata da una subocclusione di origine chirurgica: può mangiare quantità molto piccole di cibo, che siano però sufficienti al suo sostentamento (non sempre ci riesce). Cosa mangia? Omogeneizzati, integratori, vellutate. Tutte cose molto morbide, quasi liquide. Poi deve bere lontano dai pasti. Mezz’ora prima e un’ora dopo. Altrimenti si forma un tappo e non va giù niente. Una gran fatica.
Ma è vita, dice Claudia.
Vita che le ha permesso di vedere crescere sua figlia, che all’epoca dell’operazione aveva 17 anni e oggi è avvocato e mamma. Vita che le ha permesso di stare vicino a suo marito e di gioire di Olimpia l’adorata nipotina. Vita. E bellezza. Non si può rinunciare a tutto questo. Non si deve. Questa è la prima cosa che dice a chi entra in contatto con lei attraverso l’associazione “Vivere senza stomaco si può”. La seconda cosa riguarda il fornire strumenti per poter scegliere in modo consapevole dove farsi curare. Il Ministero della Salute fissa in venti interventi all’anno quale minimo indispensabile per classificare una struttura sanitaria come eccellente. Ogni gastrectomia, non importa se totale o parziale, è un intervento complesso, che determinerà la qualità di tutta la vita futura. Bisogna andare a farla là dove ci sono professionisti che ne praticano tante ogni anno. Solo così si è sicuri di affidarsi alle mani migliori.
Oltre alla famiglia, alla sorella Patrizia, Claudia ha avuto la fortuna di trovarsi circondata da amiche e amici. C’era Mariella, alla quale aveva affidato la figlia se le cose fossero finite male. C’era Fulvia, che durante la chemioterapia andava a tenerle la testa quando vomitava. C’era Annamaria, che le scriveva una lettera su carta ogni due o tre giorni. E tante altre persone. Tutto questo patrimonio di aiuti ha fatto sì che fosse sempre più chiaro il valore della “comunanza”, il valore del non sentirsi mai soli. La magrezza che contraddistingue le persone senza stomaco non deve più essere uno stigma. L’associazione, tramite i suoi specialisti, insegna a venire a patti con la mancanza di un organo così importante, a non vivere “il mangiare” come mero dovere ma a imparare a sapere cogliere il gusto di quanto ci accade. Vivere senza stomaco si può.
Claudia ci racconta:
«Sono riuscita a tornare al mio amato mare, sono salita sulla bicicletta e con il naso per aria ho assorbito i profumi della pineta e di emozione in emozione… sono arrivata qui: al mare. I miei piedi sono immersi nell’acqua di mare, il mio corpo – che ho odiato, per avermi tradito… ma che ho imparato ad amare per avermi seguito nel percorso di cura, si sta facendo accarezzare dal sole e dalla brezza… Difficilmente mi commuovo, ma una lacrima invece è scesa. Una lacrima colma di emozione, di gioia, di vita, di riconoscenza. Di incredulità».
Ci piace salutarla con l’immagine di una donna che ha trovato un suo equilibrio e che sa godersi i piedi bagnati dal mare come nessuno più di lei sa godersi.