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Storia di Elisa,
dottoressa fin da piccola

Se c’è una cosa che salta agli occhi, quando chiacchieri con Elisa, è la positività del suo sguardo. È come un sorriso, ma fatto di luce.

Se c’è una cosa che salta agli occhi, quando chiacchieri con Elisa, è la positività del suo sguardo. È come un sorriso, ma fatto di luce. Lei dice: ho avuto un’infanzia felice. Sarà per questo che non si lascia mai sopraffare dalla sfiducia o dalla mancanza di speranza? Sì, dev’essere anche per questo. Bisogna intendersi, però, su che cosa sia la felicità. Perché nell’infanzia felice di Elisa, in realtà, i problemi non sono mancati. I soldi scarseggiavano. Come in tante famiglie italiane provate dalle crisi economiche – quelle crisi che sempre colpiscono chi è già in uno stato di vulnerabilità – arrivare a fine mese era un’impresa, e i conti non sempre quadravano. In più papà non stava bene, e non poteva lavorare. E allora c’era un solo stipendio, quello di mamma. E in casa vivevano anche due nonni, entrambi malati oncologici. Bisognava prendersene cura. Elisa ricorda quei momenti con tenerezza. Dice che, in un certo senso, la sua prima esperienza come caregiver l’ha fatta da bambina, dai 9 ai 12 anni. Perché toccava a lei occuparsi di certe incombenze. Per esempio: dare ai nonni le medicine negli orari stabiliti, quando mamma era al lavoro. Una cosa da poco, per un adulto. Un bel carico di responsabilità, per chi vive un’età in cui si dovrebbe solo pensare a giocare. Eppure, se le si chiede della sua infanzia, Elisa risponde che non la cambierebbe con nessun’altra. Perché è stata bella, e ha fatto di lei la persona che è oggi. Allora forse c’è una verità semplice da mettere in evidenza: se nella famiglia di Elisa di soldi non ce n’erano tanti, in compenso c’era altro. Amore, affetto, cura, dignità, senso civico. Tutte cose che vanno a braccetto con la felicità. E che, insieme a certi valori condivisi e coltivati in un contesto ricco di umanità e contenuti, contribuiscono a formare una visione del mondo dove brillano la personalità, gli ideali, l’empatia, e la passione per il prossimo.

Oggi, nel 2024,

Elisa è medico di medicina generale in un quartiere periferico di Ferrara. Non ha mai avuto dubbi su che cosa avrebbe fatto da grande. Non ha sognato, da bambina, di intraprendere la carriera della ballerina o dell’astronauta. Aveva una certezza: finite le scuole, si sarebbe iscritta alla facoltà di Medicina. Poi, una volta iniziati gli studi, sapeva che non avrebbe concesso deroghe alla volontà di laurearsi e diventare dottoressa. Anche quando, dovendo studiare fuori sede, doveva scegliere fare economia sul cibo, perché i pochi soldi di cui disponeva preferiva usarli per comprare i libri. Ha influito, su questa pervicacia, su questa chiarezza di intenti, il periodo passato ad aiutare la mamma ad accudire i nonni? Non lo sa bene neanche lei. Può darsi. Una cosa è certa. Crescendo, non ha disconosciuto i suoi ideali. Elisa ha scelto di esercitare la sua professione non in qualche clinica privata, o in qualche ricco quartiere del centro, al riparo dal contesto sociale nel quale lei stessa era cresciuta e garantita, soprattutto dal punto di vista economico, da un ambiente elitario e benestante. Al contrario di altri, che hanno inseguito prospettive professionali più remunerative, Elisa ha scelto fin dal giorno dopo la laurea di impegnarsi nel sociale, là dove c’è più bisogno. Perché è dove non c’è ricchezza, che la medicina deve avere il suo presidio. Le statistiche parlano chiaro. L’incidenza della povertà sulla diffusione delle malattie è un dato acclarato e incontestabile.

Il quartiere dove lavora Elisa ha una lunga storia.

Nasce, come altre zone periferiche delle città del nord, sull’onda di una migrazione interna. Così come dal meridione si saliva a Torino per andare a lavorare alla Fiat, a Ferrara, verso la fine degli anni ’50, salivano i minatori marchigiani che, dopo la chiusura delle cave di zolfo di Cabernardi – il più importante centro minerario solfifero d’Europa – venivano riassorbiti con altre mansioni dalla Montedison. In seguito, negli anni ’80, il quartiere aveva subito un forte degrado, perché era diventato un centro importante per lo spaccio di droga. Col tempo, qualche investimento pubblico, la forte presenza delle associazioni di volontariato e l’impegno delle famiglie e dei cittadini, il quartiere ha invertito la rotta e si è avviato verso un processo di riqualificazione completa, che però non rinnega la sua matrice popolare e operaia, rifiutando ogni prospettiva di gentrificazione.
Oggi è un luogo dove si mescolano la bellezza e la semplicità dell’umanità più varia ed etnicamente composita. C’è poca ricchezza, ma non mancano cultura e solidarietà. In questo quartiere, insieme ad altri medici che condividono i suoi stessi ideali, Elisa si dedica a un progetto di medicina sul territorio che si ispira al pensiero di Julian Tudor Hart (1927-2018), un medico epidemiologo e clinico inglese la cui attività è nota sia per le critiche a quello che lui stesso chiamava “il mercato della sanità”, sia per le forti istanze etiche dalle quali era mosso. Nella visione di Tudor Hart, la medicina deve farsi prossima, avvicinarsi alle persone là dove esse vivono, ed essere preventiva prima che curativa. Come scrive Angelo Stefanini in un articolo pubblicato su saluteinternazionale.info il 16 luglio 2018, la ricerca di Tudor Hart «ha dimostrato il valore dell’anticipatory preventive care che in Italia ha trovato la sua espressione nella ‘medicina d’iniziativa’ in cui ‘il medico si prende cura in maniera attiva delle persone, invitandole a sottoporsi ai controlli e offrendo loro un insieme di interventi personalizzati che, iniziando prima dell’insorgere della malattia, o prima che essa si manifesti o si aggravi, possano curarla nel corso degli anni e rallentarne l’evoluzione’». Infine, secondo il medico inglese – e questa è anche la visione di Elisa – l’assistenza medica deve essere garantita a tutti i cittadini, in modo equo, perché è il primo indicatore di una vera giustizia sociale diffusa.

Elisa,

quando frequentava l’università, aveva pensato di specializzarsi in pneumologia. Poi però, durante il tirocinio post-laurea, le era capitato di lavorare come assistente per un medico di famiglia che riceveva in uno studio della campagna ferrarese. Ne rimase affascinata. Il suo modus operandi era completamente diverso da quello che Elisa si aspettava. Non si limitava a compilare ricette e impegnative. Prima di mandare i pazienti dallo specialista, vedeva se poteva fare qualcosa lui. Le flebo, certi esami, certe terapie, le medicazioni e anche qualche piccolo intervento, li eseguiva in prima persona, nel suo ambulatorio. Poi, e questa è un’usanza che va scomparendo, visitava a domicilio. Con il suo modo di lavorare, insomma, questo medico dimostrava che si può fare medicina sul territorio, e che per assistere il cittadino non è necessario sempre e per forza indirizzarlo verso una struttura ospedaliera. Ma l’aspetto che più aveva colpito Elisa, e che l’aveva convinta a rinunciare alla pneumologia per dedicarsi alla medicina generale, era stato l’aspetto relazionale. Elisa aveva capito che, per il medico di medicina generale, entrare in rapporto con la persona nella sua totalità, e non solo con il particolare malessere che la opprime, era più facile. E questo si sposava perfettamente con quegli ideali che l’avevano spinta a intraprendere la carriera medica. Avrebbe potuto prendersi cura delle persone secondo una prospettiva, per così dire, più olistica, cioè più attenta alla completezza del fattore bio-psico-sociale. Perché la salute non è mai solo un fattore biologico, è sempre incrociata con la storia psicologica e sociale dell’individuo. Ed è qui che si può fare la differenza. Curando la persona prima ancora della malattia. Attivando una rete di prossimità e prevenzione, e prendendosi cura delle persone nella loro interezza. Non era questo in fondo, che Elisa aveva intuito fin da bambina come indispensabile per il contesto sociale in cui viveva?

Insieme alle associazioni di volontariato del quartiere,

Elisa e i suoi colleghi medici hanno fondato un gruppo di partecipazione comunitaria attraverso il quale, facendo compilare dei questionari molto accurati, hanno raccolto una notevole mole di dati sugli stili di vita delle persone che abitano nella zona. In questo modo sanno, per esempio, se queste persone vivono sole o in compagnia, se hanno o meno un malato in casa, quale tipo di regime alimentare adottano, qual è la loro storia clinica, eccetera. Tutte informazioni che sono vitali per comprendere come approcciare il singolo paziente e i suoi problemi. L’elaborazione dei dati si è anche rivelata utile per individuare un dato di fondo che l’osservazione dei singoli casi non avrebbe messo in luce con la stessa chiarezza. E cioè che la percezione di malattia delle persone è direttamente correlata allo stress. Più è alto lo stress, più ci si sente malati. E chi si stressa di più, tante volte, è il caregiver. Ovvero la persona che, per vincoli di parentela o anche solo affettivi, si trova ad assistere un’altra persona. Non c’è nulla di strano in questo, e nemmeno di riprovevole. È umano. Chi assiste un malato grave in casa, chi si occupa ogni minuto della notte e del giorno dei bisogni altrui, è sottoposto a tensioni fortissime e a una quantità di stress che a volte sono addirittura superiori a quelle subite dalla persona malata. Che si può fare? Insieme alle associazioni di volontariato accogliente, ai boy-scout e a tutti gli operatori sociali sul territorio, lo studio medico di Elisa si è fatto promotore di una iniziativa per aiutare i caregiver in difficoltà, creando una rete di cittadini che si autoalimenta per cercare di alleggerire, anche solo per un paio d’ore alla settimana, l’impegno di chi dedica la propria vita totalmente a un’altra persona. Sono queste, forse, le situazioni che la medicina ufficiale, quella concentrata nelle grandi strutture ospedaliere, fatica a vedere. Per affrontarle, non c’è che la medicina sul territorio, ovvero quella medicina di prossimità che è più vicina alla vita quotidiana delle persone.

Proprio come il medico di famiglia

che tanto l’aveva affascinata nel primo tirocinio dopo la laurea, Elisa va in giro per il quartiere a visitare chi ha bisogno, realizzando così un ideale di assistenza popolare che da sempre – da quando studiava all’università ma in realtà fin da bambina – ha desiderato mettere in pratica. Oggi, mentre si appresta a uscire per recarsi da una famiglia che ha chiesto espressamente di lei, spiega che sa capire meglio di altri le persone del suo quartiere perché proviene dallo stesso humus sociale. Dice anche che le sue visite sono insieme visite mediche e sedute psicologiche.
Una volta uno dei suoi pazienti l’ha chiamata per una cistite. Lei è andata. Questo paziente, in realtà, aveva più bisogno di sfogarsi che di cure. Sua moglie era affetta da problemi psicologici gravi, e lui le stava dietro tutto il giorno. Elisa è stata un’ora e mezza a parlare con lui della situazione. Nessuna prescrizione, nessuna medicina potrà mai sostituire il potere taumaturgico delle parole, della comprensione, della vicinanza affettiva. Ma come si fa a seguire i pazienti in questo modo, con questa cura, con questa attenzione, e soprattutto dedicando loro tutto questo tempo? Elisa ha anche una famiglia, un marito, dei bambini. Dove le trova le energie per dedicarsi così tanto al suo lavoro? La sua risposta è semplice: organizzazione. La spesa? Ordina online e se la fa portare a casa. Le scartoffie da compilare? Si può fare la sera a casa. Tanto le basta dormire poche ore e si sveglia riposata. Le visite a domicilio? Durante il giorno. E per il tempo che ci vuole. Preferisce farne meno, ridurre gli slot disponibili, ma riuscire a dedicare a ogni visita il tempo necessario. Perché è proprio questa la medicina di prossimità che ha a cuore: una medicina che non si occupa semplicemente dei sintomi, ma della persona nella sua totalità bio-psico-sociale. Va da sé che, con un approccio etico-medico di questo tipo, l’incontro con Claudia, co-fondatrice di “Vivere senza stomaco si può”, non poteva che essere un incontro di affinità elettive.
Elisa non ha specifiche competenze oncologiche, ma ha quelle competenze che sono indispensabili per chi dal percorso oncologico sta uscendo. Dopo un’operazione, o una terapia, c’è ancora una vita da vivere. La persona a cui è stato asportato lo stomaco, in parte o completamente, ha bisogno di essere seguita proprio da un medico di medicina generale preparato, che sappia curare gli squilibri metabolici che possono insorgere in seguito a un’operazione del genere. Se poi il medico di medicina generale è anche particolarmente empatico con i suoi pazienti, come è Elisa, tanto meglio.
L’incontro tra Elisa e Claudia è avvenuto per caso, non per motivi professionali. Dopo qualche tempo di conoscenza reciproca però, Claudia ha capito che l’approccio di Elisa, il suo modo di intendere la medicina più come servizio alla persona che come procedura tecnica, avrebbe potuto dare molto agli associati in termini di umanità, compagnia e competenza medica specifica. Allora le ha proposto di entrare a far parte dell’associazione. Con quella solita luce negli occhi che l’accompagna da sempre, Elisa ha accettato con entusiasmo.