
Storia di Jacopo,
che ha la vita davanti a sé


Quando morì suo papà, ad appena trentanove anni, Jacopo aveva da poco finito la quinta elementare. Quel giorno gli è rimasto impresso nella memoria, assieme ai profumi acri che, quando finisce l’estate, la campagna intorno a Tivoli sparge nell’aria.
Quando morì suo papà, ad appena trentanove anni, Jacopo aveva da poco finito la quinta elementare. Quel giorno gli è rimasto impresso nella memoria, assieme ai profumi acri che, quando finisce l’estate, la campagna intorno a Tivoli sparge nell’aria. Era il 24 agosto del 2015. Mamma si era presentata a casa dei nonni, dove Jacopo e suo fratello Andrea, più piccolo di quattro anni, si erano trasferiti dopo la fine della scuola per passare le vacanze.
Ma mamma fin lì non ci veniva quasi mai. Doveva stare vicino a papà, a Roma. Perché papà era malato e aveva bisogno di lei. E allora cos’era venuta a fare in campagna, a casa dei nonni? E perché quella faccia così scura? Jacopo lo capì subito, prima ancora che mamma iniziasse a parlare.
Papà non c’era più. Se n’era andato. Forse era con gli angeli, in quel momento. Si chiudeva così un anno terribile, che aveva avuto inizio con la scoperta del male, e che aveva divorato i mesi con furia devastante, fino a quell’esito tragico. Per Jacopo e Andrea era come se una notte opprimente, nera e senza stelle, fosse calata su quella che fino ad allora era stata un’infanzia felice, piena di gioia e di luce come dovrebbe essere l’infanzia di tutti i bambini del mondo. Non sapevano ancora, i due fratelli, che il loro papà, Diego, prima di morire gli aveva salvato la vita.
Da quel momento a oggi,
quando questa storia viene scritta, sono passati nove anni. Pochi, per chi ha già una certa età. Tantissimi per un bambino che si vede costretto a bruciare le tappe, a passare dall’infanzia all’adolescenza e dall’adolescenza alla vita adulta nel giro di un niente. Jacopo, mentre racconta di sé, di anni ne ha appena diciannove, ma dimostra una maturità fuori dal comune. Con un po’ di nostalgia, ricorda i momenti belli passati con papà. Andavano a cavallo, anche se lui era piuttosto piccolo per una attività del genere. In sella con papà, si inerpicavano sui monti del Lazio, alla ricerca di posti sperduti dove assaporare quel senso di pace che solo la natura sa darti.
La famiglia abitava nella periferia di Roma Est, ma non perdeva occasione, quando si poteva, per andare in campagna dai nonni, dove c’erano molti animali. Anche dei cani da tartufo, con cui ci si poteva perdere nei boschi per ore, ad annusare l’odore dell’autunno, ad ammirare il colore della boscaglia che ammanta le alture laziali, a sentire la dolcezza dei passi sulle foglie bagnate.
Uno di quei bei giorni insieme, però, papà era più taciturno del solito. Ai figli non aveva detto nulla. Solo alla mamma: ho un carcinoma gastrico in stadio avanzato. Era un po’ che stava male e il medico lo aveva mandato a fare una gastroscopia di controllo. La situazione era apparsa da subito molto complicata. Ma quello che sembrava più strano era che il nonno di Jacopo, cioè il papà di suo papà, era morto a cinquant’anni per la stessa malattia. E anche la sorella del nonno era morta per la stessa ragione.
Non poteva essere una coincidenza. Per l’oncologa che l’aveva in cura, sì, poteva anche essere una coincidenza. Per Diego, che aveva la terza media ma non gli mancavano né l’intelligenza né la lungimiranza, no, non poteva essere una coincidenza. Così chiese se non si poteva fare un controllo di qualche tipo. In questa reiterazione della stessa malattia, non poteva nascondersi qualcosa di ereditario? Dopo tante insistenze, anche l’oncologa si convinse che un approfondimento poteva essere opportuno. Lo mandò da una genetista, la quale gli prescrisse un esame specifico. L’esame rivelò che Diego era positivo alla mutazione germinale del gene CDH1. Questa mutazione, nell’86% dei casi porta al tumore gastrico, ed è anche collegata al tumore del seno per i soggetti femminili o per i maschi che hanno la ghiandola mammaria.
Ma Diego non fece in tempo a sapere che aveva ragione, e che, proprio come aveva intuito lui, si trattava di un problema genetico. I risultati arrivarono a settembre, e lui si era arreso alla malattia a fine agosto. Tutto il ramo della famiglia di Jacopo da parte di padre era a rischio. C’era il ragionevole sospetto che si trattasse di “cancro gastrico ereditario diffuso”.
Per legge,
i minori non dovrebbero essere sottoposti a esami di tipo genetico. Ma la frequenza di casi già acclarata, e l’aggressività con la quale il tumore aveva attaccato il ramo paterno della famiglia, convinse i dottori ad agire senza preoccuparsi troppo di eventuali conseguenze di tipo legale. E fu un bene. Sia Jacopo sia suo fratello Andrea risultarono positivi alla stessa mutazione.
Questo significava che, con una percentuale di probabilità molto alta, entrambi a un certo punto della loro vita avrebbero sviluppato il tumore allo stomaco. Oltre ai due ragazzi, anche degli zii e dei cugini risultarono positivi. In tutto diciannove persone. Un numero impressionante, che certificava una incidenza del fattore ereditario connesso con l’anomalia genetica davvero elevata.
In questi casi non c’è che una strada: l’operazione preventiva. Eliminare la possibilità del male alla radice, asportando quella mucosa dentro la quale il male potrebbe andare ad attecchire e a radicarsi. Ma si può dire a un bambino di dieci anni e a uno di sei che dovranno operarsi e vivere la loro vita senza stomaco? Per di più, a un mese dalla morte del loro papà? No, non si può. Saggiamente, non fu detto loro nulla. Non era il caso di appesantire ulteriormente quello che restava di un’infanzia che aveva già subito un colpo durissimo.
Jacopo è stato operato all’età di 16 anni,
nel 2021, e Andrea a 14 e mezzo, verso la fine del 2023. In Europa e in America, non ci sono ragazzi più giovani di loro ad aver subito una gastrectomia totale. Jacopo ha fatto, in un certo senso, da apripista. Andrea ha osservato il fratello maggiore rifiutare e poi accettare la situazione. Lo ha visto tornare a casa dopo l’operazione e riprendere, anche se non subito, una vita tutto sommato normale. Si è reso conto che le cose potevano andare bene.
E quando è toccato a lui, si è sottoposto all’intervento con relativa tranquillità. Per Jacopo le cose sono state più difficili. Un giorno, come un fulmine a ciel sereno, la mamma gli aveva detto: senti, c’è una possibilità piuttosto alta che tu sviluppi la stessa malattia che ha ucciso tuo padre. Ma che stai dicendo, mamma? Nessuno gli aveva ancora raccontato che, quand’era bambino, il test aveva trovato lui e Andrea positivi alla mutazione del gene CDH1. Fu un po’ come morire. Improvvisamente, tornavano le ombre che avevano avvolto la sua esistenza non troppi anni prima. Solo sei anni prima, a essere precisi, ma a quell’età sei anni sono un’eternità, e quelle ombre, bene o male, erano state scacciate via. Ma ora erano di nuovo lì, come il segno di una maledizione dalla quale Jacopo pensava di essersi affrancato per sempre. Da un po’, però, non stava bene.
Qualsiasi cosa mangiasse gli dava acidità di stomaco. Vomitava spesso. Meglio fare una gastroscopia, non si sa mai. E la gastroscopia rilevò tre focolai. Tre possibili punti di sviluppo del tumore. Dopo l’operazione, e il relativo istologico, di focolai ne vennero individuati ventisette. La decisione di eseguire la gastrectomia totale, dunque, si era rilevata saggia. Perché il rischio c’era, eccome. Oltre allo stomaco, venne asportata anche la cistifellea e una parte dell’esofago, quella dove risiede una mucosa facilmente attaccabile dalle cellule tumorali.
Dobbiamo immaginare un ragazzone robusto, 178 centimetri per 88 chili al momento dell’intervento, amante del nuoto, della pallanuoto, del basket, pieno di vita e di voglia di vivere. Un ragazzo che aveva subito il trauma della perdita del padre quando si trovava in quel punto delicatissimo dello sviluppo che tramuta l’infanzia in adolescenza. Ora, gli veniva raccontato qualcosa che gli era stato nascosto fin da allora. E lui non riusciva ad accettarlo. La sera prima dell’operazione, Jacopo sbotta e scappa dall’ospedale. Saranno le parole di sua mamma a farlo tornare sui suoi passi, e a farlo decidere di sottoporsi all’intervento, nonostante tutto.
Jacopo è cresciuto in altezza.
Oggi, nel momento in cui scriviamo la sua storia, è alto uno e ottantotto e pesa sessantasei chili. Il suo fisico è cambiato radicalmente rispetto a prima. Però è riuscito a mettere su un po’ di muscoli. Appena dopo l’operazione, dice, era ridotto a uno scheletro. Quando sei senza stomaco, il tuo corpo cessa di assimilare grassi. La percentuale di grassi, nei gastroresecati, va dallo 0 al 3%. Un’inezia. Nonostante questo, e grazie anche a una recuperata capacità di mangiare qualsiasi cosa, anche se in porzioni più piccole della media, Jacopo ha messo su un po’ di peso e si sente meglio. Fa anche dell’attività fisica. Non le partite di pallanuoto, e nemmeno le gare di velocità in piscina. Entrava in trance agonistica e questo gli portava via troppe energie. Per riprendersi poi ci volevano giorni. No, meglio qualcosa di più semplice ma di altamente salutare.
E allora ecco cosa fa Jacopo: cammina. Per otto o dieci chilometri. Quasi tutti i giorni. È un bel modo per tenersi in forma. Perché ti permette anche di guardare cosa hai intorno. E di goderti un po’ di questa straziante bellezza del mondo, che ti può cogliere ovunque tu sia. Naturalmente, come chiunque abbia subito un intervento serio, Jacopo deve accettare i limiti che questo comporta. Sa molto bene, per esempio, che deve fare attenzione a quanto mangia, perché la possibilità di occludere l’esofago, e di provare forti dolori al petto e un senso di soffocamento è sempre lì, dietro l’angolo. Per chi ha subito l’asportazione totale dello stomaco non c’è spazio. E quel poco che c’è si riempie in fretta. Ma la vita vale comunque la pena di essere vissuta, anche con qualche difficoltà in più.
Anche per Andrea è così. Si è sottoposto all’operazione di buon grado, sulle orme del fratello. Non c’era nient’altro da fare. La gastrectomia preventiva, oltretutto, comporta il vantaggio di non doversi sottoporre a cure radicali come la chemioterapia, perché il tumore non è ancora formato e di conseguenza non ci sono cellule metastatiche nei linfonodi. Oggi Jacopo è un ragazzo felice, con tanti progetti. Ha un dialogo bellissimo con la madre, fatto di rispetto reciproco e di attenzione alle esigenze dell’uno e dell’altra. Ha un bel rapporto con il fratello, che prima dell’operazione sembrava non rendersi troppo conto delle difficoltà che Jacopo incontrava, soprattutto nei primi tempi, con l’alimentazione.
È molto concentrato sugli studi, perché una volta finito il liceo vuole iscriversi a veterinaria. Il suo sogno è curare gli animali esotici. Non gli animali da compagnia più comuni, ma quelli di cui nessuno si cura. E questo desiderio deve avere qualche cosa a che fare con quell’amore per la natura che gli aveva insegnato il papà, quando uscivano a cavallo, o quando andavano nei boschi insieme ai cani. Così incredibilmente giovane, Jacopo vuole anche fare qualcosa per gli altri.
E allora si spende attivamente per l’associazione “Vivere senza stomaco si può”, facendo compagnia ai nuovi arrivati, raccontando la sua esperienza, portando un po’ di quella freschezza che è tipica della sua età. Ora sta organizzando la presenza dell’associazione su Instagram, un mezzo che lui maneggia meglio di tutti gli altri associati. Il messaggio che vuole portare è quello di una grande positività. Quando può, racconta della sua famiglia. Del nonno, dei fratelli del nonno, che erano cinque e tre di loro erano positivi alla mutazione del gene. E poi racconta del papà, e degli zii e delle zie e dei cugini che sono stati operati come lui. Ma soprattutto del papà, che a lui e a suo fratello ha salvato la vita.