
Storia di Kejsi,
che fa sogni e si prende cura


Che cosa sappiamo dell’Albania? Poco. Eppure, è un paese meraviglioso, facilmente raggiungibile, che si affaccia sul nostro stesso mare.
Che cosa sappiamo dell’Albania? Poco. Eppure, è un paese meraviglioso, facilmente raggiungibile, che si affaccia sul nostro stesso mare. Complice l’isolamento cui, dal 1946 agli anni ’90, la obbligò il regime totalitario comunista, questa nazione incastonata tra Grecia, Macedonia, Kosovo e Montenegro rimane, per molti, una specie di mistero.
Andrebbe studiata un po’ della sua storia, che ha visto, in passato, grandi intellettuali e grandi patrioti battersi per l’indipendenza sotto la dominazione turca. E andrebbe studiata la sua lingua, che è di derivazione indoeuropea (come quasi tutte le lingue parlate in Europa), ma che mantiene tratti distintivi marcati, tali da suscitare sia l’interesse degli studiosi, sia quello di chi apprezza la musicalità che ogni idioma, nella sua singolarità, produce.
Tuttavia, la conoscenza di questo Paese, che con l’Italia specialmente del Sud intrattiene rapporti storici, rimane ancora limitata. E, in qualche caso, segnata dai pregiudizi. Ne sa qualcosa Kejsi, arrivata in Italia all’età di cinque anni, nel 2001, insieme a sua mamma e a suo fratello, per riunirsi al padre.
Iscritta a una scuola elementare in Toscana, dove la famiglia si era stabilita, Kejsi ha dovuto superare la diffidenza per lo straniero che allora – più di vent’anni fa, rispetto all’oggi in cui scriviamo questa storia – era ancora abbastanza diffusa.
Compagne e compagni di classe tendevano a escluderla dai loro giochi, e questo, quando si è bambini, procura delle tristezze che a quell’età non si dovrebbero provare. Oggi Kejsi è una giovane mamma alla soglia dei trent’anni. È perfettamente bilingue. Ama sia la sua terra d’origine, sia la terra che, con qualche contraddizione, l’ha accolta.
Verso la fine del millennio,
sulle coste della Puglia, sbarcavano centinaia e centinaia di albanesi in cerca di un futuro per sé e per la propria famiglia. Indebolito il regime comunista, che sarebbe caduto definitivamente di lì a poco, l’Albania era nel caos. Batteva una moneta che sul mercato internazionale non valeva nulla, e la popolazione viveva in uno stato di povertà estrema.
Il papà di Kejsi, Xhevit (Vito), aveva raggiunto l’Italia che non era ancora quarantenne, nel 1997. Era partito da Vlorë (Valona), città della costa dove viveva con la sua famiglia. Dopo qualche difficoltà iniziale, aveva trovato lavoro in Toscana. Xhevit sapeva e sa fare tutto: elettricista, carpentiere, muratore, meccanico, imbianchino. Chi non lo vorrebbe un operaio che sa mettere le mani ovunque, risolve problemi, ottimizza la produzione? Il tempo di sistemare le cose, di trovare una casa, di costruire un po’ di sicurezza economica, e poi anche la sua famiglia l’avrebbe raggiunto.
Il tempo, anche, di elaborare un lutto atroce. Xhevit aveva attraversato il canale di Otranto su una imbarcazione che era giunta a destinazione. Suo fratello, invece, aveva compiuto la traversata a bordo di una piccola motovedetta stracarica di 110 persone. Qualcuno ricorderà, forse, quella che venne chiamata la tragedia del Venerdì Santo del ’97.
La Katër i Radës, speronata dalla corvetta Sibilla della Marina Militare italiana, era affondata miseramente, trascinando con sé, in fondo al mare, 81 persone. Si salvarono in 34. Il fratello di Xhevit, sua moglie e suo figlio, non erano tra questi. Kejsi, all’epoca dei fatti aveva appena un anno. Per cui non ha ricordi diretti dello zio e della sua disgrazia. Ma la storia sì, la storia la conosce bene. E come potrebbe dimenticarla?
Oggi, chi passa da Otranto troverà il relitto della Katër i Radës esposto su un basamento di pietra vicino al mare. Il comune di Otranto lo ha voluto recuperare e trasformare in monumento dedicato all’umanità migrante. Queste tragedie, tuttavia, continuano a ripetersi.
Dopo una vita di lavoro in Italia,
a sessant’anni, Xhevit si è ammalato gravemente. La diagnosi: carcinoma gastrico. Kejsi ricorda la data: 3 febbraio 2021. Ricorda addirittura il giorno: era un mercoledì. E ricorda la dottoressa, che in piedi sulla porta del suo ufficio, e senza nemmeno invitarla a entrare per sedersi, le aveva detto: «Ho brutte notizie, c’è un tumore maligno». Il risultato della biopsia era stato riferito così, in modo secco, brutale. Kejsi, impietrita, sgomenta, si era limitata a balbettare: «Si può fare qualcosa?». La risposta era stata: «Ah, non lo so». Poi la dottoressa le aveva consegnato i fogli delle analisi ed era tornata alla sua scrivania, presa da altre cose. Kejsi, davanti alla porta chiusa, con i fogli stretti nelle mani tremanti, piangeva. Appena ventiquattrenne, era a lei che veniva affidato il compito di portare la brutta notizia alla famiglia. Papà era di là, nel letto dell’ospedale. Stava completando una trasfusione di sangue, convinto che bastasse quello a rimetterlo in sesto. Stava male da un po’. Nausee, reflusso gastrico. Per quasi un anno, il medico di famiglia aveva prescritto Maalox e Gaviscon, i classici rimedi contro l’acidità di stomaco. Naturalmente, non servivano a nulla.
I malesseri erano aumentati. Ora, ogni volta che mangiava, Xhevit pativa dolori allucinanti. E poi era pallido, stanco. Soffriva di forti crampi alle gambe. Minimizzava, com’è tipico degli uomini pratici e forti, che pensano di guarire da ogni malattia lavorando con ancora più intensità di prima!
Ogni mattina, del resto, continuava ad alzarsi per andare al sugherificio dove da anni lavorava in qualità di operaio specializzato. Kejsi e sua mamma però non erano tranquille, e lo avevano praticamente obbligato, ricorrendo alle maniere forti, a fare le analisi del sangue.
Dopo le analisi, invece dei risultati, era arrivata una telefonata: presentatevi subito al pronto soccorso. L’emoglobina era talmente bassa che andava eseguita una trasfusione immediata. Xhevit stava rischiando grosso. La telefonata, giunta in modo inaspettato, addirittura di sabato, e l’urgenza così pressante che la motivava, avevano scosso profondamente gli animi in famiglia. Anche Kejsi era scossa, ma meno degli altri.
Lei se lo sentiva già da un po’ che le cose non sarebbero state facili, che nell’aria c’era qualcosa di brutto. Perché Kejsi ha una particolarità. Sogna. E ogni tanto, sembra che i sogni vogliano dirle qualcosa.
Kejsi
si è diplomata al liceo economico sociale con indirizzo psicologico. Poi, a 18 anni, ha scelto di lavorare. Voleva dare una mano in famiglia, e anche immaginare una strada sulla quale costruire il proprio futuro. Così ha iniziando facendo la babysitter, come tante ragazze a quell’età. Poi ha lavorato in un panificio e in una gelateria, infine si è specializzata nell’assistenza alle persone anziane. Le è rimasta la passione per la psicologia e, in generale, per tutto quello che va oltre gli aspetti meramente materiali dell’esistenza.
Quel sabato, dopo aver accompagnato il padre per la trasfusione d’urgenza, volle subito parlare con i dottori: «Papà soffre di dolori allo stomaco forti, strani, che lo prendono sempre dopo che ha mangiato. Bisogna approfondire». Kejsi sentiva che la carenza di emoglobina era il segnale di qualcos’altro, qualcosa di brutto, e che la trasfusione non sarebbe stata risolutiva.
Qualche anno prima, aveva sognato il proprio cognome scritto con dell’inchiostro nero su una superficie immacolata. Un suo zio, un altro fratello di suo papà, in quel periodo, stava male. Per cosa? Carcinoma gastrico… Poi era mancato. Sentiva che quei due fatti erano collegati, anche se non avrebbe saputo dire come, perché ancora non sapeva che suo padre soffriva dello stesso male. Ora, una sensazione simile la attanagliava.
Da poco, aveva rifatto lo stesso sogno: il suo cognome, scritto in nero su una superficie immacolata. Questa volta però, una specie di luce interveniva a cancellarlo, lasciando, alla fine, solo uno sfondo bianco e luminoso. Che significava? Che voleva dire? Difficile da capire lì per lì. Xhevit, intanto, era stato ricoverato, perché l’emoglobina continuava a rimanere bassa. Si sarebbero fatte altre trasfusioni, e tutti gli accertamenti possibili. Certamente anche una gastroscopia con biopsia.
Era ancora periodo di covid,
per cui Kejsi non poteva assistere il padre da vicino come avrebbe desiderato. Le visite in ospedale erano limitate e brevi. Forse la dottoressa che poi, davanti alla porta del suo ufficio, le riportò i risultati della analisi in quel modo così brutale… chissà, forse era stressata proprio dal fatto che la pandemia complicava ogni cosa. Quel periodo, lo ricordiamo, fu davvero difficile per tutto il personale sanitario in Italia.
Rimane che il referto parlava chiaro: tumore al terzo stadio con diversi linfonodi già intaccati. Per Xhevit fu un colpo durissimo. Non riusciva a immaginare sé stesso, un uomo che non aveva mai sofferto di nulla, aggredito da una malattia così definitiva. Pensò di non avere più molto tempo da vivere. Kejsi, dal canto suo, con il padre in ospedale, quasi abbandonato per via delle restrizioni pandemiche, visse momenti di intensa prostrazione. Non dormiva più. Si svegliava di notte.
Pregava. Girava per casa osservando il divano dove suo papà si sedeva alla sera, o il posto che occupava a tavola, e li immaginava vuoti per sempre, senza di lui. Le venne una grande tristezza. C’erano delle cose però, che le impedivano di scivolare nella disperazione più buia. Si ricordava che, tempo addietro, quando ancora nulla lasciava presagire quei momenti difficili, le era venuto, dal nulla, il desiderio di donare il sangue e i capelli per i bambini malati di tumore.
Non poteva, anche questo, avere un significato speciale? Si ripromise di dare concretezza a quel desiderio al più presto. E poi c’era il sogno. Uguale al precedente, ma diverso nel finale. Il cognome veniva cancellato da un raggio di luce. Non poteva significare che le cose, al contrario dell’altra volta, questa volta sarebbero andate bene? Kejsi ancora oggi non sa dire se si è trattato davvero di segni premonitori o di semplici coincidenze.
Del resto, chi potrebbe dirlo con assoluta certezza? La convinzione, però, che oltre alla vita materiale ci sia qualcosa di più, che esista una dimensione che trascende la mera fattualità del quotidiano, accompagnava Kejsi fin da quando era bambina. Per questo, in quel periodo decise che era venuto il momento per una scelta molto personale: ricevere il sacramento del battesimo.
Kejsi cercò su Internet
e si mise in contatto con “Vivere senza stomaco si può”. La sera stessa, una delle fondatrici dell’associazione, Claudia, la chiamò al telefono. Le chiese di raccontare come stavano le cose. Kejsi le parlò di un chirurgo che si era espresso in termini non troppo chiari circa l’intervento da eseguire. Non era specializzato in interventi oncologici e sembrava che volesse cautelarsi, mettere le mani avanti in caso di complicazioni.
Claudia le consigliò di cambiarlo. Le diede il nome di uno specialista di cui si fidava. Unico problema: lo specialista lavorava in un ospedale a 120 km di distanza. In famiglia non erano d’accordo. Xhevit stava affrontando la malattia con l’atteggiamento più giusto per favorire un processo di guarigione: una grande forza d’animo e tanta energia positiva. E pensava che quel viaggio non avrebbe fatto chissà quale differenza.
Almeno qui sono vicino a casa, diceva. Ma sua figlia aveva percepito che di Claudia non solo poteva, ma doveva fidarsi. Sentiva che la sua speranza passava per le parole che le aveva detto lei. Allora insistette finché, finalmente, il padre accettò di fare quel viaggio, imbottito di antidolorifici per via del mal di stomaco sempre più forte. E fu amore a prima vista. Il chirurgo li ricevette nel suo studio e mostrò una grande empatia. Alla fine, disse a Xhevit: «Lei adesso pensi a fare bene la chemioterapia, al resto penso io». Parole di speranza. Era come se le prime luci dell’alba gettassero un po’ del loro chiarore dopo una notte lunghissima e oscura. La chemioterapia, poi, diede ottimi risultati. La massa tumorale aveva subito una cospicua riduzione.
E anche i linfonodi ingrossati erano quasi spariti. Gli esami successivi confermarono che la presenza dei marcatori tumorali si era abbassata in modo significativo. Secondo Kejsi era anche un po’ merito suo. Aveva messo il padre a dieta, obbligandolo a condurre una vita più sana ed equilibrata. Via gli zuccheri in eccesso, via l’alcol, via le carni rosse. Kejsi seguiva i principi della medicina integrata, per cui ci si deve occupare della salute di tutto il fisico, non solo della parte attaccata.
È un principio intelligente, e antico. L’essere umano non è una macchina scomponibile in pezzi meccanici. È una unità. Bisogna curarlo nella sua completezza, che è anche mentale e spirituale, oltreché fisica. Prima ancora dell’operazione, grazie alla chemioterapia e alle cure amorevoli della famiglia, Xhevit aveva già ripreso a stare bene, tanto che andava a lavorare più allegro di prima.
Kejsi dice che questa esperienza l’ha cambiata,
l’ha fatta crescere. Le ha insegnato la speranza. Che non deve mancare mai, nemmeno nelle situazioni più difficili. Tutti noi possiamo attingere a una forza interiore che iniziamo a capire di possedere proprio quando ci scontriamo con il male. Una forza che è fondamentale per l’esito dei processi di guarigione. Kejsi ha anche imparato il valore del tempo.
Ogni attimo conta, e vale la pena viverlo con gioia e consapevolezza. Tante cose che ci infastidiscono nella nostra vita di tutti i giorni, che riteniamo addirittura tragiche, in realtà non lo sono. Kejsi si è connessa con le parti più profonde di sé stessa e ha trovato una pace che prima non conosceva. E ha imparato a essere più attenta agli altri, più empatica, più vicina.
E tutto questo è accaduto stando vicino a un padre adorato, un padre che fin da bambina ha sempre chiamato “il mio eroe”. Kejsi oggi dice che se dovesse scrivere un libro per raccontare questa storia lo intitolerebbe così: “Il cancro di mio padre mi ha guarita”. Non è straordinario quanto bene possa portare, nella vita di certe persone, ciò che oggettivamente è male?
Dopo la gastrectomia parziale,
che gli ha lasciato il 30% di stomaco, Xhevit è tornato quello di prima. Naturalmente, effettua i controlli ogni sei mesi. Per adesso – e sono già passati un po’ di anni – va tutto bene. Xhevit è un uomo forte, generoso, sempre impegnato ad aggiustare qualcosa, e felice di essere al mondo e di prendersi cura della sua famiglia, alla quale oggi si è aggiunta anche una nipotina, la figlia di Kejsi e del suo compagno.