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Storia di Silvia,
che ha fatto compagnia
al papà

Un lungo minuto di silenzio. Un minuto che sembra un’eternità. Nel minuscolo altoparlante del telefono, il respiro dell’altro è un soffio lontano, appena percettibile.

Un lungo minuto di silenzio. Un minuto che sembra un’eternità. Nel minuscolo altoparlante del telefono, il respiro dell’altro è un soffio lontano, appena percettibile. Come un presagio di lontananza, primi accenni di un distacco imminente. Silvia ha ritirato le analisi del sangue di suo padre. Il padre le ha chiesto di leggergliele subito, al telefono. Silvia avrebbe preferito aspettare, farlo in un altro momento. Ma il padre insiste e allora lei legge. E dopo c’è un minuto di silenzio che sembra infinito. Sono entrambi esperti di quelle letture. Nessuno dei due è un dottore, ma ormai ne sanno quanto basta. Hanno l’esperienza di chi inizia a riconoscere i valori sballati non attraverso lo studio dei manuali di medicina, ma attraverso la malattia. Il papà di Silvia era stato operato d’urgenza, due anni prima. Carcinoma gastrico, piuttosto avanzato. Avevano dovuto asportare tutto. Anche Silvia era stata operata, proprio nello stesso periodo. Ma per una cosa totalmente differente. Al cuore. A lei avevano dovuto sostituire una valvola AORTICA. Che situazione singolare, al limite dell’assurdo. Lei in una stanza, qualche piano più su, in degenza dopo l’operazione. Suo padre di sotto a fare la chemioterapia. E dopo la chemio, un salto di sopra, a trovare la figlia. Stesso periodo, stesso ospedale. Il destino ha più fantasia della penna di uno scrittore. La sorella di Silvia che fa la psicologa e a cui, nemmeno nelle situazioni più estreme, manca un certo senso dello humor, ebbe a dire: be’, ma è meglio che vi siate ammalati in due, così non abbiamo tempo di disperarci né per l’uno né per l’altro. Silvia e sua sorella ci ridono sopra ancora oggi. L’ironia non guasta mai, è terapeutica.

Le analisi del sangue erano brutte.

Silvia le aveva lette al papà sapendo perfettamente che quello che gli stava dicendo comportava conseguenze serie. Il minuto di silenzio che seguì alla lettura dei risultati fu lunghissimo per quel motivo. (IL SENSO DI COLPA PER NON AVER FATTO ABBASTANZA, LA RIPRESA DELLA MALATTIA, IL SENTIRSI INADEGUATI ED IMPREPARATI). I marcatori tumorali, che fino ad allora erano stati in silenzio, questa volta urlavano. Vale a dire, fuor di metafora, che i loro valori erano molto alti. E Silvia aveva dovuto leggerli al padre senza nascondergli nulla.
I marker tumorali sono sostanze presenti nel sangue che, qualora trovate in quantità fuori dalla norma, segnalano, abbastanza spesso, la presenza e lo sviluppo di una neoplasia, cioè di una formazione tumorale. Vengono valutati nel sangue e, in casi particolari, anche in altri fluidi corporei come il liquido pleurico o peritoneale. Quando, dopo una gastrectomia, in fase di monitoraggio post-terapico compaiono concentrazioni elevate del marcatore tumorale, è abbastanza probabile che questo indichi la comparsa di metastasi o la ripresa della malattia, la quale, non avendo più a disposizione lo stomaco del paziente per svilupparsi, attacca qualche altro organo. Silvia e suo padre sapevano che c’era questa possibilità, perché il tumore era stato diagnosticato molto tardi e delle metastasi erano già in circolo.

Erano passati due anni dall’operazione.

Non sono molti. Certo non sono sufficienti per ritenersi fuori pericolo. Ma erano stati due anni buoni. Dopo le chemioterapie, che sempre debilitano il fisico, il papà di Silvia, piano piano, si era ripreso. C’era stata qualche difficoltà iniziale con l’alimentazione, com’è normale per tutti i gastroresecati, anche se, è chiaro, per chi ha subito la gastrectomia totale i problemi sono maggiori, perché non c’è più lo spazio dove andare a immagazzinare il cibo.
E quindi anche il papà di Silvia aveva sofferto il cambio di regime alimentare. Prima solo cibi liquidi, poi gli omogeneizzati, infine qualcosa di più solido, ma poco, pochissimo, e con grande attenzione. Il dolore e la sensazione di soffocamento che si vengono a creare quando si ingerisce una quantità di cibo che si blocca nell’esofago non sono una bella esperienza. Le cose, ad ogni modo, erano migliorate un po’, a poco a poco. Il papà di Silvia aveva anche ripreso a lavorare.

Silvia da ragazza sognava di fare la hostess.

Poi però ha scoperto che volare la metteva in apprensione. Allora ha rinunciato. Intanto ha frequentato la facoltà di lingue, e faceva sport. Ogni tanto aveva dei momenti di affaticamento. Li imputava alla stanchezza, o al troppo impegno durante gli allenamenti. Una sera, in un ristorante, è svenuta. Meglio effettuare qualche controllo. È così che ha scoperto di avere la valvola AORTICA difettosa. Per il cardiologo, era una situazione con la quale si poteva convivere ancora un po’. Così Silvia ha conosciuto un ragazzo, uno sportivo anche lui. L’ha sposato, sono nate due bellissime bambine. Silvia ha continuato a fare sport, solo con meno intensità. Ha trovato lavoro in una azienda che produce pentole per la grande distribuzione.
Un lavoro di responsabilità, nell’ufficio commerciale. La gestione degli ordini e delle vendite, la distribuzione dei prodotti nelle aree di mercato più recettive, l’avviamento di operazioni di marketing, il pricing (ovvero la politica dei prezzi), le strategie di presenza sugli scaffali degli ipermercati… sono tutte cose che decidono del successo o meno di una produzione aziendale, e quindi sono tutte cose che, se fatte bene, garantiscono un lavoro stabile e un futuro alle persone che lavorano in quell’azienda. Silvia svolge questo lavoro ancora oggi con molta passione e competenza. Poco prima dei quarant’anni però, il cuore era tornato a fare i capricci. Aritmie, affaticamento, svenimenti. Era venuto il momento di operare. Ed è in quei giorni lì, quando il cardiologo gli ha appena comunicato che è tempo di sostituire la valvola AORTICA, che Silvia riceve la telefonata del padre: «Devo dirti una cosa». Dimmi papà, cosa c’è? «Ho un tumore nello stomaco, abbastanza grosso».

Non si può descrivere cosa si prova in momenti del genere.

Quando si dice che “ti crolla il mondo addosso”, si dice una cosa usando il linguaggio figurato, ma è un linguaggio figurato che restituisce con precisione una sensazione vera. Perché la sensazione è realmente che tutto cada, che tutto crolli e si sfasci a terra, insieme a noi. Un altro modo di dire è che “ti manca la terra sotto i piedi”. E non è proprio così? Senti che il mondo ha perso la sua stabilità, quella che ti fa uscire di casa con la certezza che non volerai via, che il corpo rimarrà saldamente attaccato al suolo grazie alla forza di gravità. Ma in questi casi c’è un’altra forza di gravità che prende il posto, alzi scalza, quella esistente, quella che fa girare i pianeti. È la forza di gravità della notizia, che diventa come un buco nero che risucchia tutta l’energia che ha intorno. E qui, nella storia di Silvia, di buchi neri ce ne sono due. Un’operazione al cuore imminente e una asportazione dello stomaco altrettanto imminente. Il cardiologo rassicura: non siamo nel milleottocento, si tratta di un intervento abbastanza semplice.

Semplice?

Sarà. Ti vengono a toccare il cuore. Te lo fermano per un’ora e mezza, mentre ci trafficano dentro e affidano il pompaggio del sangue a una macchina esterna. Non è che in quell’ora e mezza vivrò come morta? È questo che Silvia si chiede. Anche andare in anestesia totale, sapendo che qualcuno verrà a lavorare sul muscolo che pompa sangue ed emozioni, ha il suo bell’effetto traumatico. È impossibile che uno non si chieda se si risveglierà o no. E tutta questa angoscia va moltiplicata per due. Perché anche l’asportazione dello stomaco non è uno scherzo. Ma soprattutto, non si sa quanto sarà risolutiva. Perché il tumore è avanzato. Ma bisogna sperare, perché ci sono persone prese tardi che si sono salvate, e altre prese presto che hanno avuto complicazioni. Non bisogna mai pensare che sia finita. Poi il destino, naturalmente, fa come vuole.

Silvia, operata al cuore,

mamma di due ragazze, moglie, impiegata, è riuscita ad accompagnare il padre, insieme a sua mamma e a sua sorella, per i due anni trascorsi dall’operazione allo stomaco fino a quella fatidica telefonata, quella del minuto di silenzio, quando la ricomparsa dei marker tumorali era tornata a gettare un’ombra su tutto. Per due anni, con le ragazze da seguire sia negli impegni scolastici, sia nelle loro attività sportive agonistiche – sono figlie di due sportivi, potevano non impegnarsi nello sport a livello agonistico? – e tutte le varie faccende domestiche da sbrigare insieme al marito, e il lavoro in ufficio così impegnativo… con tutto questo Silvia trovava il tempo di accompagnare il padre in giro per l’Italia. Loro sono marchigiani, e il padre di Silvia era seguito da un centro specialistico di Verona. Bisognava viaggiare, qualche volta fermarsi fuori, passare il weekend tra letti d’ospedale e flebo, fare le notti.
Nel contempo anche cercare di non affaticarsi troppo. L’operazione al cuore era andata alla perfezione, ma un po’ di cautela, dopo aver subito un intervento del genere, viene naturale raccomandarsela. Silvia ha fatto tutto quello che può fare una figlia per il padre. E in più ha fatto tutto quello che tutte le donne italiane fanno ogni giorno, senza che ancora venga loro riconosciuto pienamente. Silvia è fortunata perché ha un marito che la aiuta e con il quale si divide i vari compiti della giornata. Ma per tante non è così. Oltre al lavoro tengono la casa pulita da sole, seguono i figli da sole, eccetera. Giornate lunghissime, che non finiscono mai.

Dopo quella telefonata,

c’è stato poco da fare. Le metastasi erano diffuse ovunque. Alla giovane età di 67 anni, il papà di Silvia, consulente informatico per le aziende, è entrato nuovamente in ospedale per provare qualche cura ulteriore, ma anche per sedare il dolore che andava crescendo esponenzialmente. Ormai era un malato terminale. E dopo tre mesi, non ce l’ha più fatta. Tuttavia, aveva ricevuto un bel regalo. Un rapporto ritrovato con le figlie. In particolare con Silvia, la più grande. In quel momento pazzesco, quando lei gli aveva letto gli esiti degli esami, lui aveva avuto la sensazione di trovarsi davanti a un tribunale esistenziale che gli stava comminando una condanna definitiva. Ma questo atto veniva da una persona alla quale lui, insieme a sua moglie, aveva dato la vita. Una persona che gli era stata vicina per quei due anni vissuti dopo l’operazione, e che avrebbe continuato a vivere, come una prosecuzione di lui. In quel momento, in quel famoso minuto di silenzio, si era giocato molto della comprensione di qualcosa del senso della vita.
In quel minuto di silenzio non erano più i marker tumorali a parlare, non era più la condanna ad avere il sopravvento, ma l’amore, l’amore di un padre per la figlia e di una figlia per il padre. Una specie di corrente elettrica amorosa viaggiava avanti e indietro nel silenzio di quel minuto imbarazzato e pieno di paura per il futuro. Era quanto bastava per trovare un po’ di felicità dentro l’angoscia più grande. Da quel giorno – ormai sono trascorsi diversi anni – Silvia non ha mai abbandonato l’associazione “Vivere senza stomaco si può”, che suo papà frequentava da quando aveva scoperto la malattia. Sa che può dare una mano. E lei vuole continuare a dare una mano. Silvia sa che può consigliare soprattutto i caregiver. Che può calmare le loro ansie raccontando loro la sua esperienza. Sa, e può spiegarlo ad altri, che si può passare attraverso qualsiasi prova, quando si vuole bene a una persona.
IN PRIMO LUOGO BISOGNA VOLER BENE A STESSI, NON TRASCURARSI, FARE IL POSSIBILE PER IL NOSTRO CARO MA TENERE BENE A MENTE CHE NOI ABBIAMO UN COMPITO GRAVOSO ED ABBIAMO BISOGNO DI ENERGIE FISICHE E MENTALI. E che volere bene è sempre la medicina più efficace. Quella che riempie di senso tutto, anche il dolore. A Silvia piace molto camminare in montagna. Non si spinge oltre i 2.500 metri perché ha pur sempre subito un intervento al cuore, anche se problemi, per fortuna, non ce ne sono e la vita scorre in maniera normale. Mantiene il suo passo e cammina per ore, immersa nel silenzio e nella bellezza di quei posti che raccontano di una verticalità che unisce la terra al cielo. E mentre cammina, qualche volta pensa a papà.